Tu mi devi molto, almeno abbastanza.
Grace fiore dell’Argentina, te l’ho scritto nel libro
di Neruda che ti ho regalato a San Valentino.
Eri fatta di bianco e di azzurro, poi sei stata ossessione
e nero.
Per te mi son ritrovato in macchina di continuo
ché i mezzi non ti piacciono; ho riempito mattinate e
pomeriggi con chiese bar e panchine in mezzo ai cani
per aspettarti, in chiesa ci ho anche dormito.
Per te
non sono andato a lavorare, mi sono addormentato alle
quattro per settimane che sommate fanno mesi perché
dovevi chiamarmi, ma non lo facevi.
Ho speso non so quanto al ristorante argentino, al peruviano,
ti ho portata da Poldo in via Di Nanni dove andavo solo con gli amici
veri, per farti provare la farinata che non ho neanche
capito se ora sai di cosa è fatta.
Ti ho regalato un Nokia di quelli touch che non usavi,
il lubrificante al mango che non abbiamo usato;
per te ho buttato pomeriggi da Zara
e all’OVS per delle scarpe che ti ostinavi a non trovare;
ti ho rotto una tazzina davanti sì, ma ho mandato giù
il fatto che vivi con un romeno di novanta chili di nome
Jo che era il tuo ex.
Ho tenuto gli amici al telefono per farmi dire che siamo più intelligente di così,
che ci sono cose più importanti per cui spendere energie.
Per te
ho passato ore a sentire tutto Malinconoia di Masini,
Qualcosa Qualcuno di Tozzi e probabilmente non ho
pianto tanto neppure quando è morto il mio cane.
Era uno splendido meraviglioso westy bianco candido,
l’avevo preso al canile con la dermatite e lo avevo curato.
Parlavamo molto insieme, sapeva ascoltare e in macchina
mettevamo Michael Jackson.
A Lui avrei dovuto fare diecimila regali.
È che era felice così, perché c’ero sempre io.