A marzo di un anno fa, sono andato in un parco cittadino con una valigetta, i colori dentro, la carta, le gomme, i pennarelli e una bottiglietta d’acqua. Sembrava la campagna.
Ho trovato un tavolo di pietra con una panca di pietra, e mi sono messo a disegnare diverse idee che avevo per la testa. C’erano degli insetti che a distanza mi tenevano una discreta compagnia, senza affanni.
La natura era intorno, ma non mi ha ispirato più di tanto, perchè pensavo alle situazioni in essere in quel momento, alle complicanze della lista.
Poi sono arrivati i bambini, incuriositi più da me che dai cavalli che c’erano intorno, da questo signore che si era messo li a disegnare, colorare, come fanno loro di solito, e quindi prima da lontano poi sempre più sfacciatamente si sono avvicinati per vedere cosa facevo, a spiare con le loro faccette a metà tra l’innocenza originaria e la coscienza già spuria.
Però cosa facevo io da bambino? Disegnavo tanto, immaginavo, coloravo le idee, provavo a dare forma alle mie visioni, e ci riuscivo pure bene. Passavo ore nel mio mondo a dipingere. E se non disegnavo, progettavo un disegno.
Oggi disegno ancora, oggi sono ancora convinto che attraverso questi strumenti posso sempre esprimere quello che vedo, che sento, che immagino.
E’ l’unico modo che conosco per dire qualcosa di me, per parlare con te, per tirare fuori le cose recondite, per lasciare un segno seppur debole e infinitesimale nella tempesta di questo tempo, in questo frammento di vita, all’ombra di questo muro che viene prima del prossimo, ma che è caduto quasi già.
Comunque ho tanti colori in tasca, sempre, tutti lì da spendere su una carta bianca.