Cammino ogni giorno sulle dune, arrivo sempre dallo stesso punto, e comincio ad affondare i miei piedi nei granelli del deserto.
Al di là, il mare in eterna inquietudine ondosa.
Ogni passo, milioni di granelli di sabbia che affondano.
Ogni colpo di vento, milioni di granelli di sabbia che volano.
Ogni errore di ogni uomo sulla terra, trasformato in un granello di sabbia.
Fu così che il Sahara, da eden lussureggiante, divenne l’empio deserto, arido e assetato di silenzio, al punto di uccidere ogni essere umano che osi sfidarlo.
Per i ṣūfī, i mistici dell’Islam, il deserto rappresenta il grado zero dell’anima, cioè quello stadio cruciale di evoluzione interiore in cui la consapevolezza perviene a un vicolo cieco, ovvero a quella fase di profonda crisi esistenziale in cui non si intravede alcuna speranza e tutto appare privo di significato.
Ogni consapevolezza deve inevitabilmente attraversare il deserto – il deserto dell’angoscia, della disperazione, dell’assurdità, del senso di perdita e di morte – per raggiungere la piena maturità: è insomma la tappa fondamentale e ineluttabile dello sviluppo spirituale.
Ma come trascendere il deserto? Il fragile castello di misere certezze, faticosamente costruito nell’arco di un’intera esistenza, non potrà essere di alcun conforto.
Occorre piuttosto abbandonare le proprie consuetudini, il passato, il conosciuto, per iniziare un viaggio all’insegna del nuovo, dell’ignoto.
Il deserto bisbiglia, si dice, ma bisogna saperlo ascoltare.
Ed è questa la quintessenza della meditazione: porsi in silenzioso ascolto del proprio Sé – quello che nel sufismo (taṣawwuf) si definisce “l’Io più grande” – per scorgere infine la luce.
Anche per questo motivo amo Fuerteventura, perché ogni giorno posso camminare sulle dune, attraversare il mio deserto interiore, ed ascoltare me stesso.